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Non c’è differenza tra “vedere” e “manipolare”

La nuova concezione proposta, ovvero l’approccio biocognitivo, considera il vedere, il sentire, il gustare, non  dissimile dal “toccare”. Ad esempio, percepire al tatto una pipa o una palla consiste nell’usare la mano come strumento per esplorare l’oggetto, ovvero la pipa o la palla. Così come quando, strizzando una spugna facciamo esperienza della sensazione di morbidezza. Quest’ultima è intimamente connessa alla particolare interazione verificatasi con la spugna. Allo stesso tempo, l’esperienza visiva non è qualcosa “creata” dal nostro cervello (cognitivismo classico), ma consiste nell’essere coinvolti in un’ interazione visivo-esplorativa con l’ambiente. L’esperienza di vedere l’intera scena e di vederla continuamente, deriva dal fatto che, tutto ciò che è interessante nella scena può essere immediatamente raggiunto eseguendo gli appropriati movimenti degli occhi. Ciò significa che, vedere non consiste nel registrare passivamente una rappresentazione del mondo esterno simile all’immagine di una cartolina. Vedere implica un’interazione attiva con il mondo. Dunque la visione, come il tatto e le altre percezioni, è un senso esplorativo. Vedere è come esplorare il mondo esterno con una mano enorme, la retina.

Applicare un modello biocognitivo significa voler considerare ciò che il cervello fa quando percepisce, ad esempio quando vede, come un sondare l’ambiente, controllando se queste o quelle cose sono presenti (grazie al processo di Organizzazione Neurologica o apprendimento). Nel fare questo il cervello impegna una serie di circuiti neurali che “filtrano” l’input sensoriale. Questi circuiti (neurostati) o filtri (psicostati) si sono sviluppati nel corso dell’evoluzione e, grazie alla nostra pregressa esperienza o apprendimento (modifica dei circuiti neuronali), si rafforzano sempre di più, consentendoci di percepire, ovvero di conoscere il mondo esterno così come lo descriviamo. Talvolta, questi filtri ci consentono di rispondere in maniera coerente al mondo esterno, anche quando gli indizi sono parzialmente presenti, altre volte, questi filtri, qualora non fossero sufficientemente organizzati, determinano un’anomala “descrizione” del mondo da parte di chi ne è colpito (tra questi i soggetti con autismo).

La nuova concezione rompe definitivamente con il passato, poichè rifiuta l’idea che la conoscenza del mondo sia “generata” da qualche specifica area neuronale. La conoscenza visiva, tattile, uditiva, olfattiva e gustativa, come la nostra cognizione, non è per niente generata da uno specifico circuito neuronale. Restare chiusi nei vecchi schemi sarebbe come voler presumere che la nostra vita sia generata nel DNA o nel cuore o nel cervello o nel fegato. La cognizione non è qualcosa che può essere generata, essa non rappresenta altro che una parola, che noi utilizziamo per descrivere un particolare modo di interazione dell’organismo con l’ambiente. Senza alcun dubbio il cervello permette la forma d’interazione con l’ambiente che chiamiamo cognizione. Il compito del tecnico che vuole studiare il processo o, ancor di più, il compito del terapista che vuole porre rimedio ad una “problematica cognitiva”, ovvero di interazione uomo/ambiente, deve essere quella di andare alla ricerca dei meccanismi cerebrali che consentono l’interazione.

L’invito, come sempre, è quello di uscire dagli schemi ed “entrare” nelle conoscenze attuali, quelle proiettate a migliorare la comprensione dei processi cognitivi umani secondo l’approccio sensori-motorio o bio-cognitivo.

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