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Siamo condannati ad imparare: la neuroplasticità (parte prima)

Per moltissimo tempo abbiamo creduto che le connessioni cerebrali di un individuo adulto, una volta stabilitesi, sarebbero rimaste grosso modo immutabili. Tutto al più ci consentivamo di ammettere che dei minimi cambiamenti occasionali potessero verificarsi allorchè un individuo veniva sottoposto a nuovi apprendimenti. In tal caso si sosteneva che il cervello si fosse limitato a rinforzare determinate connessioni a discapito di altre. In effetti, gli scienziati sostenevano che la struttura di base del cervello e delle sue reti di neuroni (connettoma) non si modificava nella sostanza. Inoltre, diffusa era anche la convinzione che le individualità fossero dettate dal patrimonio genetico, e che gli apprendimenti fossero soprattutto un mezzo per mettere a punto il potenziale genetico della persona. Eppure, erano ben note le capacità di adattamento del corpo umano. Chiunque si fosse sottoposto ad allenamento fisico avrebbe potuto  notare i cambiamenti della propria muscolatura scheletrica, oltre che della funzione cardiaca, respiratoria, della circolazione sanguigna e, perchè no, dell’attività nervosa.

Il primo che utilizzò il concetto di plasticità neuronale è stato William James, vissuto tra il 1842 ed il 1910.

In effetti, l’uomo ha relativamente pochi comportamenti innati, ed è pertanto condannato come nessun altro animale ad apprendere.

In tale ottica, la plasticità cerebrale diviene la condizione essenziale, se non la più importante, della nostra sopravvivenza. Inoltre, la plasticità cerebrale è la condizione che rende unico ciascuno di noi. Infatti, i gemelli omozigoti hanno gli stessi geni e, sovente, condividono le stesse condizioni ambientali, allo stesso tempo, i loro cervelli sono differenti.

Oggi siamo a conoscenza che, le esperienze e l’apprendimento modificano non solo i collegamenti tra i neuroni, ma anche la struttura del Sistema Nervoso Centrale (neuroplasticità)

Senza dubbio, lo studio attento dei soggetti cerebrolesi ha rappresentato, da sempre,  la base per gli sviluppi delle neuroscienze umane. La vecchia concezione localizzazionista, ritenuta valida fino a metà degli anni novanta del secolo scorso, aveva indotto a pensare che, qualora particolari regioni cerebrali fossero difettose (ictus, tumori, traumi, ecc.) risultassero compromesse anche le funzioni controllate da queste aree. Infatti, per i localizzazionisti prevaleva un modello rigido di localizzazione, secondo il quale specifiche funzioni mediate dal cervello venivano controllate da “moduli” neuronali anch’essi specifici.

Nell’ultimo ventennio questa prospettiva ha fatto radicalmente posto ad un nuovo modello delle funzioni cerebrali: il sistema nervoso viene visto come un sistema dinamico che non smette mai di ORGANIZZARSI, ed il cui elemento essenziale è la PLASTICITA’.

Il cervello umano è formato da circa 100 miliardi di neuroni, ciascuno dei quali connesso a 100, 10.000 altri neuroni. In effetti, responsabile delle nostre azioni, dei nostri pensieri, di ogni cosa che apprendiamo, ricordiamo, e esperiamo emozioni, è una rete di cellule nervose di dimensioni inimmaginabili ed ampiamente ramificata, oltre che PLASTICA.

Nel prossimo articolo analizzeremo le indagini neuroscientifiche che, dagli anni 50 ad oggi, ci hanno consentito di comprendere il reale significato della neuroplasticità, grazie alla quale siamo individui dinamici e, grazie alla quale, possiamo suggerire proposte terapeutiche a soggetti con disordine dello sviluppo neurologico

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