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Le neuroscienze possono “purificare” la nostra educazione

Nella storia della medicina, l’autismo infantile fu definito clinicamente, per la prima volta, dal neuropediatra Leo Kanner, nel 1943.

Invece, chi si occupò per primo di definirne l’eziologia (causa del quadro clinico) fu uno psicanalista, Bruno Bettelheim, secondo il quale, il fattore  che faceva precipitare il bambino nell’autismo era il desiderio dei suoi genitori che egli non esistesse. Bettelheim, che aveva fatto esperienza nei campi di concentramento, vede i bambini autistici simili a “fortezze vuote”, espressione, da lui utilizzata, per sottolineare una sopravvivenza, di questi bambini, in condizioni estreme.

Tale interpretazione riscosse notevoli consensi nella comunità scientifica e medica, in un’epoca in cui non vi era la possibbilità di studiare il comportamento umano con esami neurostrumentali (si disponeva solo dell’e.e.g. e della pneumoencefalografia) e, dove, la terapia analitica trovava condivisione unanime (basta pensare a quanto di personale raccontato da papa Francesco qualche giorno fa).

Agli inizi degli anni settanta, un’altra figura professionale non medica (come Bettlheim), ma di formazione pedagogica, Carl H. Delacato, ipotizza una nuova interpretazione eziopatogenetica dell’autismo infantile. Per Delacato i comportamenti anomali dei bambini autistici sono dipendenti alle particolari caratteristiche sensoriali di questi bambini. Per Delacato, le anomalie sensoriali rivestono un ruolo primario nella vita dei bambini autistici, condizionandone la vita comunicativa e relazionale. Per Delacato, siccome i sistemi sensoriali, di cui siamo forniti, permettono all’individuo di acquisire le informazioni, estero ed interocettive, per agire, interagire e conoscere l’ambiente, l’autismo infantile diventa una problematica dell’apprendimento. Per Delacato, per adattarsi, in contesti estremamente dinamici, in maniera efficace, il processo di elaborazione delle informazioni sensoriali, provenienti sia dal mondo che dal nostro stesso corpo, è funzione primaria e fondamentale. Per apprendere a sopravvivere nell’ambiente che lo circonda, il cervello del cucciolo d’uomo deve ANALIZZARE ed INTEGRARE, in modo implicito, una mole enorme di informazioni sensoriali, FILTRANDOLE, al fine di garantire, al bambino, il SIGNIFICATO. Per Delacato, nei bambini con disordine dello sviluppo neurologico, provocato dalle più svariate cause pre, peri e postnatale, l’intero processo sensoriale descritto non funziona in maniera veloce e funzionale.

La comunità medica, specie quella dei pediatri e dei psichiatri infantili, non accettò le proposte di Delacato, continuando a diffondere, per altri due decenni (fino agli anni novanta), il pensiero di Bettlheim.

Nel frattempo, le nuove indagini strumentali e le neuroimaging ma, soprattutto, le storie dei soggetti autistici adulti, capovolgevano i giudizi dei medici. Dalle sempre più numerose testimonianze di pazienti emergeva, come intuito da Delacato, che erano implicati i sensi.

L’incapacità di distinguere tra figura-sfondo, la percezione di tutta la scena percepita come un’entità singola, la distorsione delle figure, l’attrazione per il movimento, l’iperacusia, l’ipoalgesia, l’ipersensibilità tattile, le distorsioni del gusto e dell’olfatto erano segni e sintomi costantemente presenti nel vissuto dei soggetti autistici (Temple Grandin, Donna Williams, Lucy Blackman ed altri).

Nonostante queste testimonianze e, nonostante, la nuova era delle neuroscienze, nel nostro paese la “condizione clinica” riguardante l’autismo infantile non ha subito un radicale cambiamento rispetto agli anni novanta.

Infatti, in tutti gli ambienti accademici italiani, pur riconoscendo l’origine biologica dell’autismo infantile, allo stato, la “gestione sanitaria” del quadro sindromico non ha subito radicali modifiche rispetto ad un passato non più recentissimo.

Purtroppo, pur riconoscendone l’origine biologica, il mancato ricambio professionale nel prendersi “cura” di questi bambini, fa si che prevalga ancora il dogma dell’irreversibilità del danno neurologico.

E’ in tale ottica che gli articoli sulla neuroplasticità pubblicati bal blog assumono un ruolo fondamentale.

Se attraverso lo studio delle neuroscienze attuali riuscissimo a “purificare la nostra educazione”da tutti quei pregiudizi secondari all’influenza, sulla nostra formazione, delle idee di Bettlheim, potremmo intravedere un cambiamento, non solo teorico, ma pratico.

Ancora oggi, i pregiudizi secondari ai vecchi modelli, fanno si che, la maggioranza dei tecnici, pur riconoscendo il danno biologico quale causa dell’autismo infantile, pensano che la famiglia dei bambini autistici, più che una risorsa, sia un intralcio.

Gli studi sulla neuroplasticità individuano, nell’ambiente domestico, il luogo privilegiato per l’intervento terapeutico-riabilitativo (apprendimento ed automatizzazione dell’apprendimento richiedono intensità, frequenza e costanza della stimolazione).

Nessuno può diventare un bravo musicista senza “allenamento”.

Diventare un bravo musicista significa, soprattutto, aver modificato il proprio cervello sia a livello strutturale, che funzionale.

Le neuroimaging hanno evidenziato come, con l’esercitazione, ovvero con l’acquisizione di esperienze, nei cervelli si verifica una superspecializzazione delle cellule nervose. Diventare esperto significa, soprattutto utilizzare meno neuroni per quel compito. Ciò permette, al cervello dell’esperto, di liberare risorse per altre funzioni.

Acquisire un’abilità, secondo il modello neuroplastico, significa riorganizzare i circuiti coinvolti, modificare, con l’esercitazione, la rete neuronale.

La plasticità strutturale e quella funzionale vanno di pari passo.

Necessita una generazione di tecnici con una formazione scientifica capace di mortificare i pregiudizi del passato ed interessata, scientificamente, alla comprensione di come sia possibile che un cucciolo d’uomo, che nasce così immaturo, diventi poi un adulto capace di comporre sinfonie.

 

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