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Autismo e Schizofrenia, più differenze o più punti di contatto?

 

La finalità di quest’ articolo non è quella di entrare nel merito di come prendersi cura dei soggetti autistici e di quelli schizofrenici, nè di quale specialista debba farlo,  bensì quella di dare un’ interpretazione, la più oggettiva possibile, sul perchè schizofrenia ed autismo ricevono, allo stato attuale, approcci ed attenzioni differenti, in ambito scientifico e sanitario.Inoltre, l’articolo mira a  promuovere un’ educazione non prigioniera delle etichette diagnostiche.

Come ho già scritto in un articolo precedente ( “E’ importante conoscere cosa succede nel cervello schizofrenico” ), negli anni del secondo dopoguerra, e per il ventennio successivo, molti bambini autistici venivano anche diagnosticati come schizofrenici precoci, cosa, in seguito, poco gradita dalle associazioni dei genitori di soggetti autistici nate, nel nostro paese, a metà degli anni ottanta.

Pertanto, sia per il volere accademico (nel 1960, in Italia, la neuropsichiatria infantile acquisisce totale autonomia, in merito a ciò l’operatività dei neuropsichiatri infantili si sviluppa sempre di più, specie a livello di servizi territoriali), che per quello parentale, le due patologie hanno seguito percorsi di ricerca scientifica totalmente separati, senza mettere al servizio, l’una dell’altra, quanto di interessante emergeva dalle moderne neuroscienze.

Se la scelta di mantenere le distanze tra le due condizioni,  da parte del mondo accademico, trovava la sua giustificazione nel fatto che la neuropsichiatria infantile avesse rivendicato una sua autonomia, sia operativa che di orientamento diagnostico, oltre che di ricerca scientifica, quale cosa avrebbe condizionato le famiglie dei bambini autistici dall’ avere timore di ricevere una diagnosi, per i propri figli, di un disturbo del gruppo delle schizofrenie?

Ancora una volta, a mio parere, ad aver orientato la scelta dei genitori è stata “l’ignoranza degli accademici”.

La diagnosi di schizofrenia fece la sua comparsa in medicina nel 1911, grazie ad Eugen Bleuler che, sotto l’influenza di Sigmund Freud e del pensiero psicoanalitico, si era indirizzato alla ricerca ed alla definizione dei sintomi “schizofrenici” ed aveva considerato la “demenza”(termine utilizzato all’epoca per diagnosticare questi pazienti) quale conseguenza e non quale causa della malattia.

In effetti, ancora per qualche decennio, specie nel nostro paese, i medici continuarono ad utilizzare, per questi pazienti, il termine diagnostico di “demenza precoce”, che era stato introdotto in medicina da Kraepelin (1895), per differenziare i pazienti “schizofrenici” (demenzia precoce) dai bipolari.

Era un’ epoca in cui, pur avendo avuto qualcuno, negli anni precedenti,  l’idea di considerare le “malattie psichiche” conseguenza di “malfunzionamenti cerebrali”, la malattia psichica non poteva non essere che conseguenza del peccato (idea sorta negli ambienti medici della Germania nel 1840).

Negli anni ottanta del secolo scorso, anni in cui nel nostro paese nascono le associazioni di genitori di soggetti con autismo, la diagnosi di schizofrenia, come quella delle altre “malattie mentali”, veniva definita  dal DSMIII (1980) e, successivamente, dal DSMIIIR (1987) : un disordine mentale che compromette il funzionamento dell’individuo e che è caratterizzato da sintomi psicotici coinvolgenti disturbi del pensiero, delle emozioni e del comportamento.

“I sintomi psicotici sono rappresentati da : deliri, allucinazioni, incoerenza, appiattimento dell’affettività. Durante il decorso del disturbo vi è un marcato deterioramento del funzionamento delle capacità lavorative, delle relazioni sociali e della cura di sè, rispetto al livello raggiunto prima dell’insorgenza del quadro clinico. Ai fini di una corretta diagnosi di schizofrenia va escluso un “fattore organico” capace di causare o mantenere i sintomi”.

Infatti, la diagnosi di schizofrenia non andava fatta in presenza di un disturbo cerebrale, nè in stati di intossicazione o astinenza da droghe.

Pertanto, l’eziologia restava sconosciuta, mentre la patogenesi era da attribuire a fattori biologici, psicologici o sociali. Quella che era infausta era la prognosi, infatti, per gli specialisti (psichiatri) era da escludere una restitutio ad integrum che, qualora la diagnosi fosse stata corretta, non si sarebbe potuta verificare.

Appare abbastanza chiara ed ovvia la distanza da tale condizione clinica auspicata dai genitori di piccoli bambini (all’epoca, anni ottanta/novanta, la diagnosi veniva fatta tra i tre ed i quattro anni, cioè dopo due anni dalla comparsa dei primi sintomi) con anomalie del comportamento e con ritardo dello sviluppo del linguaggio.

Eppure, a mio personalissimo avviso, tale netta separazione non si è mostrata utile per nessuna delle due condizioni.

Gli studi epidemiologici nell’ambito dei disturbi del comportamento (sia età evolutiva che adulta) sono stati per tantissimo tempo difficili a causa dei limiti della medicina (assenza di metodi obiettivi di validazione diagnostica). Infatti, come abbiamo letto nell’articolo, fino a qualche decennio fa, i termini autismo e schizofrenia non avevano lo stesso significato per tutti gli specialisti, inoltre, gli stessi medici europei ed americani attribuivano un differente significato diagnostico (i primi utilizzavano le diagnosi in maniera molto più restrittiva dei secondi). L’introduzione degli ultimi sistemi diagnostici (DSMV nel 2013) ha consentito di stabilire diagnosi largamente condivisibili. Questo ha permesso di evidenziare come, ENTRAMBE LE CONDIZIONI, abbiamo prevalenza simile, ovvero intorno all’1, 1,5% della popolazione. Tali valori di prevalenza risultano essere omogenei nei vari paesi e con distribuzione ubiquitaria nei ceti sociali per entrambe le patologie. Inoltre, in entrambe le patologie si trova una prevalenza di circa tre ad uno tra il genere maschile e quello femminile.

Per ENTRAMBE LE CONDIZIONI è noto, da tempo, che il rischio è maggiore in soggetti appartenenti a famiglie in cui disordini neurologici si sono già manifestati, come, in ENTRAMBE LE CONDIZIONI si rileva il riscontro anamnestico di un eccesso di complicazioni ostetriche. Inoltre, in ENTRAMBE LE PATOLOGIE si rileva un eccesso di nascite (del 10% rispetto ai valori attesi) nelle stagioni invernali (eventi infettivi?). Inoltre, nelle raccolte anamnestiche dei soggetti schizofrenici, compare sempre più con maggior frequenza, sin dalle prime fasi dello sviluppo, tutta una serie di segni secondari a lieve disordine dello sviluppo neurologico (ipersensibilità acustica, goffaggine motoria, ipermnemonici visivi, segni di dislateralità, ecc.).

Sia nei soggetti SCHIZOFRENICI che AUTISTICI, già dalla fine degli anni ottanta, era stata osservata con la TAC cranio-encefalo una aspecifica dilatazione ventricolare.

In ENTRAMBE LE CONDIZIONI, l’analisi quantitativa dell’E.E.G.(elettroencefalogramma) specifica che le differenze con i “normotipici” sono della stessa natura, ovvero consistono in un rallentamento dell’attività di base (minore presenza di ritmo alfa) ed in una scarsa reattività del tracciato (segni di scarsa integrazione corticale).

Rilievo ancora più interessante è quello che emerge dai risultati delle ultime ricerche fatte con fMRI e con una versione della tecnica chiamata “imaging con tensore di diffusione”(DTI) sia nei soggetti SCHIZOFRENICI che in AUTISTICI ad alto funzionamento, e da un loro confronto. In entrambe le condizioni cliniche si riscontra una iperconnettività locale ed una ipoconnettività a lunga distanza (patologie del connettoma).

La medicina, anche in epoca moderna, nei confronti degli autistici e degli schizofrenici ha commesso gravi errori: ha osservato e valutato i comportamenti identificandoli con categorie, cioè ha promosso diagnosi basate solo sui sintomi o sull’osservazione dei comportamenti e non sulla biologia.

Qualora gli specialisti del settore trovassero gusto nel comprendere il concetto di ORGANIZZAZIONE NEUROLOGICA scoprirebbero un continuum, tra normotipici e neurotipici oltre che, tra le differenti patologie del sistema Nervoso. In tal caso potrebbero “confezionare una prognosi” caso per caso, per ogni singolo paziente.

Da questo venir fuori dagli schemi tutti ci guadagnerebbero.

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