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La teoria del filtro ci ricollega nella natura

Nell’ultimo articolo del blog abbiamo ricordato che, circa duecentomila anni fa e per settantamila anni, mentre in altre parti del continente africano le popolazioni di Homo sapiens si estinguevano via via che gelo e siccità falcidiavano animali e piante, i fortunati abitatori del margine meridionale dell’Africa (nostri antenati, dimostrato anche dal fatto che gli esseri umani hanno una diversità genetica molto bassa in confronto di molte altre specie con popolazioni di dimensioni e diffusione geografica minore) si cibavano con molluschi ricavati dal mare, smentendo la nostra convinzione che considera la moderna cognitività e le capacità mentali conquiste “dell’uomo moderno”(homo sapiens-sapiens).

Infatti, la raccolta dei frutti di mare era più difficile di quanto si possa pensare (l’onda della marea di ritorno poteva facilmente travolgere un raccoglitore sprovveduto). Pertanto, richiedeva la costruzione di strumenti di pietra esposte precedentemente al fuoco al fine di renderle più lavorabili, oltre che di qualche genere di calendario lunare, per programmare le spedizioni verso la costa quando c’erano basse maree.

Come se non bastasse a “detronizzare l’uomo moderno o sapiens-sapiens”, alcuni studi recenti condotti sui cetacei potrebbero provocarci ulteriore senso di frustrazione (ci consideriamo la specie vivente più intelligente, al punto che pretendiamo di misurarla a tutti quegli individui che manifestano comportamenti differenti dai nostri).

Infatti, si è visto che, i delfini condividono molte caratteristiche con noi, tra cui la longevità, una lunga vita post-riproduttiva ed una struttura sociale fatta di cooperazione, formazione di alleanze e trasmissione culturale all’interno del gruppo e tra comunità diverse. Questi animali superano il test dello specchio (indicatore di autoconsapevolezza) e manifestano comportamenti tali da suggerire che comprendono l’imminenza della scomparsa di un loro compagno gravemente malato. Inoltre, sembrano mostrare i segni di neurodegenerazione tipici dell’Alzheimer (morte delle cellule nervose, placche amiloidi, ammassi di neurofibrille).

A mio avviso, quello che maggiormente “mortifica” il nostro concetto di COGNITIVITA’ emerge da una recente scoperta scientifica che aiuta a comprendere meglio la “teoria del filtro”(come il cervello si comporta in situazioni in cui esiste un sovraccarico di inputs sensoriali).

Sappiamo che, quando due informazioni vengono presentate simultaneamente a due canali sensoriali differenti o a due distinte vie anatomiche sensoriali, quali due orecchie (per esempio utilizzando due voci diverse che fanno pervenire una serie di numeri ad un orecchio e delle parole all’altro orecchio), chiedendo  di prestare attenzione ai messaggi che giungono ad un solo orecchio, le persone riferiranno solo ciò a cui hanno prestato attenzione, pur essendo in grado di identificare l’altezza o il sesso della voce che ha inviato messaggi all’altro orecchio. Questo perchè, tutti gli inputs sensoriali che arriveranno alle cortecce cerebrali (sede della consapevolezza) devono giungere prima alla formazione reticolare (tronco cerebrale) ed al talamo. Le cellule nervose che compongono i nuclei di queste antiche strutture, non soltanto determinano uno stato di maggiore o minore attenzione, ma possono anche chiudere o aprire dei canali sensoriali preferenziali.

Allo stesso tempo, la teoria del filtro presentava un problema di conoscenza scientifica: se è importante prestare attenzione, è pur vero che è necessario smettere di rispondere agli stimoli che si ripetono con monotonia.

In tante patologie del Sistema Nervoso, ed in particolare in patologie del neurosviluppo (A.D.H.D., autismo, quadri di paralisi cerebrali infantile, sindrome di Tourette) non ci si riesce a staccare da ciò che attrae, restando continuamente attratti da ciò che è già noto.

Il tutto con rilevanti problematiche sociali e relazionali (non dimentichiamo mai che queste sono le consequenze del disordine neurologico e non la causa del problema).

Recentemente è stato scoperto che il neurotipo di questa difficoltà a staccarsi da uno stimolo non va ricercato nelle strutture neurali ritenute la sede della “cognitività umana”(parte anteriore dei lobi frontali), bensì nelle strutture neuronali profonde (quelle che condividiamo con molte specie del creato). Infatti, un piccolo nucleo del tronco cerebrale, detto nucleo interpedencolare in quanto posto tra i peduncoli cerebrali, agisce come un freno capace di ridurre la voglia di continuare ad esplorare oggetti familiari.

I ricercatori (Università del Massachusetts) hanno dimostrato che inibendo le cellule nervose del nucleo interpeduncolare si induceva una maggiore attenzione ed interazione con oggetti familiari, come se fossero nuovi. Al contrario, attivando le stesse cellule nervose si riduceva l’interesse nei confronti di stimoli già noti.

Solo attraverso un approccio neurobiologico evolutivo e, dunque, riportando l’uomo nella natura, possiamo comprendere, sempre meglio, sia i nostri comportamenti che quelli anomali.

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