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Le terapie cognitive-comportamentali non rappresentano la prima scelta nell’autismo (parte prima)

Durante questi tre anni di vita del blog “autismo fuori dagli schemi” (primo articolo 30 aprile 2016), abbiamo, numerose volte, ricostruito i tratti salienti di 76 anni di storia dell’autismo che, senza alcuna forzatura, potremmo definire come una storia di confusione da parte degli accademici, con conseguenze drammatiche sulle proposte terapeutiche offerte ai soggetti con autismi.

Fino al 1980, non solo mancava una definizione coerente di “AUTISMO”, la discussione degli accademici sembrava focalizzata prevalentemente sulla compatibilità o meno del ritardo mentale in un quadro clinico considerato “psicotico”.

Infatti, all’epoca, l’autismo veniva considerato per lo più come una manifestazione precoce della schizofrenia infantile, ovvero un disturbo emotivo radicato nelle dinamiche madre -figlio.

Solo con il DSM III (1980) l’autismo infantile verrà definito come un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo che interessa tre domini: “mancanza di responsività verso gli altri, grave deterioramento delle capacità comunicative e risposte bizzarre a diversi aspetti dell’ambiente. Tutti sviluppatisi entro I PRIMI 30 MESI di età”.

Viene in questo modo posta ed enfatizzata la chiara distinzione dalla schizofrenia.

In una situazione del genere, appare evidente a tutti che, Carl H. Delacato doveva essere cosiderato un rivoluzionario e, come tale, bandito da ogni discussione “scientifica”.

Infatti, nel 1974 Delacato nel suo libro “The ultimate stranger “(Alla scoperta del bambino autistico, un anno dopo in italiano) scrive: “…guardare un bambino che, senza fine, si morde una mano o fa ruotare un portacenere in modo ipnotico; che fissa per ore, con lo sguardo vuoto, un granello di polvere; che urla, al vostro avvicinarsi, come un animale ferito; che si colpisce il volto senza fine o si spalma sul corpo le sue stesse feci, guardando per tutto il tempo diritto attraverso di voi, invute paura. Questo è il bambino autistico! Egli vi ignora: è respinto da ogni contatto umano; non vi ascolterà o parlerà con voi, nè vi permetterà di toccarlo. Non vorrà neppure guardare un altro essere umano. Il suo solo PIACERE (ho scritto io piacere in stampato maiuscolo e, tra poco, chi legge capirà il perchè), il suo soddisfacimento, sembra solo venirgli dalla sua attività grottesca, ricorrente, spesso automutilatrice. Preferisce le cose alla gente; è sempre solo, chiuso in se stesso: è uno straniero tra noi”.

Delacato, incurante di quanto sosteneva il mondo accademico, riportò questo drammatico quadro clinico ad una condizione secondaria ad una encefalopatia evolutiva con conseguente disordine dell’Organizzazione Neurologica (neurosviluppo atipico).

Per Delacato, un danno neurologico in epoca precoce poteva disorganizzare i circuiti cerebrali del piccolo paziente modificando il modo di PERCEPIRE (ho scritto volontariamente percepire in stampato maiuscolo e, tra poco, chi legge capirà il perchè) il mondo e, dunque, il comportamento. Pertanto, la priorità assoluta era rappresentata dalla precisione nel diagnosticare i canali sensoriali alterati al fine di migliorare le terapie per i disturbi sensoriali.

Nel 2019 le neuroscienze sostengono che solo attraverso una migliore comprensione della neurobiologia possono emergere terapie più efficaci al fine di “normalizzare” comportamenti atipici.

Le anomalie comportamentali in età evolutiva (sia della sfera comunicativa che relazionale) non possono più essere considerate una manifestazione di un carattere morale debole da parte di un genitore o di una cattiva educazione, ma devono essere considerate come un malfunzionamento di specifici circuiti neuronali.

Appare evidente che, il compito del clinico deve essere quello di definire i circuiti neuronali primariamente interessati nella genesi del quadro clinico al fine di stabilire quale terapia deve essere prescritta.

La descrizione dei sintomi, come tutta la raccolta anamnestica, oltre che le indagini diagnostiche di laboratorio, hanno un’enorme importanza proprio in tal senso.

E’ questo il motivo per il quale, nella seconda parte dell’articolo mi soffermerò sulla diagnosi differenziale tra disturbo del comportamento secondario ad una disfunzione primaria dei circuiti del PIACERE e disturbo del comportamento secondario ad una disfunzione  primaria dei circuiti della PERCEZIONE o sensori-motori. Infatti, le terapie proposte per questi due disturbi non possono non essere differenti.

Pertanto, un errore diagnostico indurrebbe il clinico a prescrivere terapie non indicate, con conseguenze drammatiche per il piccolo paziente e per la sua famiglia.

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