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Il comportamento-problema: come le neuroscienze ci aiutano a capirlo (parte prima)

Mi piacerebbe affrontare in maniera articolata, con le lettrici e lettori del blog “autismo fuori dagli schemi”, alcune questioni scientifiche di non semplice interpretazione, alcune delle quali sono state solamente sfiorate in precedenti articoli.

L’autismo è una malattia mentale?

L’autismo è una problematica neurologica, corporale o mentale?

Che cos’ è il Sè per le neuroscienze del XXI secolo?

Gli autistici provano emozioni, sentimenti, ed hanno un Sè?

Un “comportamento problema”, per essere trattato, è sufficiente etichettarlo oppure andrebbe compreso in termini etiopatogenetici?

Per affrontare tali questioni in termini scientifici preferisco partire da un caso clinico, il caso di Alessandra, una bambina di quattro anni e mezzo.

Alessandra da circa due anni ha ricevuto la diagnosi di “disturbo dello spettro autistico”.

E’ figlia unica, nata al termine di una gravidanza normodecorsa.

Anche al momento del parto non si era verificato nulla di anomalo (parto eutocico a termine).

Nei primi quattro/cinque mesi di vita, in coincidenza con l’allattamento al seno, Alessandra si era mostrata “lamentosa”, in modo particolare durante la notte.

Tutte le tappe del suo sviluppo neuromotorio, durante i primi 18 mesi di vita,  erano state raggiunte in epoca. Anzi, poco prima dei dodici mesi era già in piedi.

Verso i diciotto mesi di vita, entrambi i genitori, iniziarono ad osservare che chiamata non mostrava alcun interesse.

Per questo motivo si consultò un pediatra il quale, visto che Alessandra aveva sofferto di otite qualche mese prima, consigliò uno studio della funzione uditiva attraverso visita specialistica e potenziali evocati uditivi o ABR (test neurofisiologico non invasivo che valuta la funzionalità del tronco cerebrale in risposta a determinati stimoli uditivi), risultato nella norma.

Purtroppo, tra il diciottesimo ed il ventiquattresimo mese di vita di Alessandra, la situazione clinica, progressivamente, si arricchì di molti sintomi tra cui: scarso interesse per la comunicazione verbale con assenza dello sviluppo del linguaggio, sguardo sfuggente, sfarfallamento delle mani ai lati degli occhi, rifiuto del cibo, fatta eccezione per pochi cibi molto consistenti (cotoletta fritta, parte esterna del pane, bordo della pizza, patatine fritte). Inoltre, sempre progressivamente, Alessandra sviluppò comportamenti molto bizzarri tra cui: fobia per i cani, per i lattanti, oltre che per le ludoteche ed i centri commerciali. Inoltre, per Alessandra, era un problema stare nella mensa scolastica insieme ai suoi compagni di classe (diventava molto iperattiva e si provocava dolore).

Per tutti questi motivi clinici, dopo attenta e prolungata osservazione clinica ma senza aver praticato esami neurostrumentali, ad Alessandra fu diagnosticato un “disturbo dello spettro autistico” e, pertanto, fu inserita in un progetto terapeutico molto ampio, comprendente sia la psicomotricità (due ore settimanali) che la logopedia (un’ora settimanale), oltre che, un intervento educativo/comportamentale (ABA) per dodici ore la settimana ed un’ora settimanale di sostegno alla famiglia.

Partendo dalla storia di Alessandra al fine di far luce sulle considerazioni iniziali, penso che sia utile riflettere sul come la clinica abbia interpretato le anomalie caratteriali e del comportamento in età evolutiva.

Le neuroscienze, il cui obiettivo è quello di sottoporre a sperimentazione le ipotesi di studio,  iniziano la loro “avventura”circa un secolo fa, con il comportamentismo.

Infatti, sia perchè Freud e Jung, in quanto padri fondatori della psicanalisi, stabiliscono che la loro teoria non poteva essere sottoposta a verifica scientifica, sia perchè la cellula nervosa viene scoperta nel 1907, non si può parlare di neuroscienze prima della nascita del comportamentismo (1913).

I comportamentisti sostenevano che solo il comportamento poteva essere osservato e, pertanto, poteva essere studiato. Di certo non le attività mentali, come le emozioni ed i sentimenti, il Sè e la coscienza che, con i suoi contenuti privati, poteva essere accessibile solo attraverso introspezione.

Appare ovvio che, per i comportamentisti e per circa mezzo secolo, non destava alcun interesse sapere cosa stesse accadendo nel cervello di Alessandra quando incontrava cani o neonati, quando entrava nella mensa scolastica o quando veniva a conoscenza che stava per entrare in un centro commerciale o in una ludoteca per andare ad una festa di bambini.

La sola cosa che suscitava interesse scientifico era quella di capire come modificare la risposta comportamentale (comportamento problema) modificando lo stimolo. Era la relazione stimolo/risposta a catturare l’interesse dei ricercatori (ad esempio, cosa avrebbe fatto Alessandra se avesse indossato le cuffie alle orecchie prima di entrare in un centro commerciale?).

Sembra evidente che un approccio comportamentista, allo stato, non è utile per le nostre questioni.

Negli anni cinquanta/sessanta dello scorso secolo le neuroscienze cambiarono direzione.

Il comportamentismo cedette progressivamente il passo al cognitivismo.

Dunque, diventava oggetto di studio il tentativo di comprendere come venivano elaborate le informazioni ambientali dalle cortecce cerebrali al fine di generare un atto cognitivo.

Grazie a questo nuovo approccio i “comportamenti problema” di Alessandra non rappresentano più una semplice “risposta sbagliata” ad uno stimolo ambientale, ma diventano uno stato motivazionale centrale (paure, fobie, ansia).

I sistemi del piacere e del dolore, le vie mesolimbiche e la dopamina, ovvero le motivazioni, catturano le attenzioni dei ricercatori per gran parte della seconda metà del secolo scorso.

Per tale motivo, all’epoca, un tecnico avrebbe consigliato ai genitori di Alessandra di controllare i comportamenti problema della propria figlia lavorando sulle motivazioni.

Recentemente (ultimo ventennio) le neuroscienze hanno fatto registrare un nuovo cambio di direzione.

Facendo riferimento alla biologia evolutiva, le neuroscienze ci hanno fatto comprendere che: “QUESTI COMPORTAMENTI VENGONO DECISI IN MODO INCONSCIO, PER SODDISFARE LE RICHIESTE DEL CORPO”( il termine “comportamento problema” perde ogni significato scientifico e rappresenta solo una semplice etichetta che poco onora il tecnico che continua ad utilizzarla).

Come possiamo osservare, il cognitivismo veniva demolito da ciò che aveva trascurato: l’evoluzione, l’organismo.

Appare evidente che, qualora volessimo provare a comprendere i comportamenti di Alessandra, oltre che a dare una risposta alle nostre considerazioni iniziali, dobbiamo fare luce su due nuovi attori (il cognitivismo ha fatto luce sulle cortecce cerebrali): l’inconscio e il corpo.

Nel prossimo articolo conosceremo meglio questi nuovi protagonisti che, con le nostre cortecce cerebrali, generano i comportamenti umani.

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