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Dare fondamenti biologici all’autismo

Il termine autismo fu utilizzato per la prima volta nel 1908 da Eugen Bleuler che lo aveva riferito ad una particolare forma di isolamento dal mondo, sintomo tipico della schizofrenia.

Nel 1943, il dottor Leo Kanner che all’epoca lavorava presso il Johns Hopkins hospital di Baltimora, lo riprese per descrivere le condizioni cliniche di 11 bambini di età compresa tra i 2 e gli 8 anni affetti, per l’appunto, da quello che definì “autismo infantile precoce”.

Da allora, la medicina ha compiuto notevoli progressi nella descrizione e nella comprensione della clinica dell’autismo, al punto che, anche senza essere genitori o neuropsichiatri infantili, insegnanti o educatori, tecnici della riabilitazione o psicologi, molti conoscono e riconoscono soggetti con autismo.

Eppure si avverte, nell’ambito della comunità scientifica, la necessità di professionisti capaci di pensare fuori dagli schemi, schemi cristallizzati da decenni di intuizioni umane e senso comune che hanno costantemente cercato la risposta nel posto sbagliato: la psiche ed il comportamento.

Purtroppo, ancora oggi, nonostante i progressi nel campo delle neuroscienze, la distinzione tra malattie del “cervello” e malattie della “mente”, tra disturbi “neurologici” e disturbi “psicologici” o “psichiatrici” resta attuale. Tale distinzione rappresenta una malagurata eredità culturale diffusa sia nella società che in ambito medico, ed è figlia di una radicale ignoranza della relazione corpo/cervello/mente.

Basta pensare che le patologie cerebrali ( Parkinson, corea, epilessia, malattie demielinizzanti, neurodegenerative, processi espansivi, cerebrovasculopatie, ecc.)vengono viste come tragedie inflitte a persone che non miglioreranno le loro condizioni cliniche, mentre quelle mentali sono viste come disagi sociali ed il problema consiste soprattutto nella mancanza di forza di volontà (specie adulto) o nell’educazione (bambino).

A dimostrazione di questo, basta pensare che ad un bambino autistico (disordine dello sviluppo del sistema nervoso) la valutazione medica viene fatta su test psicologici.

E’ da questa criticità che emerge la necessità di professionisti capaci di agire fuori dagli schemi.

Tutti sostengono la genesi biologica dell’autismo, pochissimi negano la compromissione delle funzioni sensoriali nella genesi dei sintomi autistici, eppure, di questi, pochi operano nella direzione che tratta la mente umana come un processo e non come una sostanza.

La maggioranza dei tecnici che si occupano di autismo, nonostante si dichiarino seguaci del materialismo e non del dualismo di sostanza (mente/cervello), si mostrano seguaci del dualismo di proprietà.

Essi ammettono che la mente ed il cervello sono emersi da un’unica sostanza, ma poi, in modo estremamente risoluto e senza ombra di dubbio, sostengono che occorre trattare le caratteristiche psicologiche (le anomalie comportamentali in termini motivazionali) prescindendo dalla biologia (anatomia e fisiologia del S.N.), facendoci così sprofondare in un dualismo di proprietà.

E’ necessario ed urgente che professionisti capaci di pensare e di agire fuori dagli schemi inizino ad occuparsi di autismo.

Infatti, ho pochi dubbi sul fatto che possiamo migliorare l’approccio all’autismo fino a quando si continua a sostenere, come fanno la maggioranza dei professionisti, che la struttura e la funzione del cervello siano temi secondari per la “cura” dell’autismo e non fondamentali.

Uscire dagli schemi significa innanzitutto avvicinarsi all’autismo prendendo le distanze dal cognitivismo per lasciarsi guidare dalla biologia evolutiva ed avere ben chiaro il concetto che, nel corso dell’evoluzione, i corpi pervennero ad avere menti.

Ma affermare che la mente è parte del corpo (superare il dualismo di sostanza) non è sufficiente. Occorre anche dire in che modo lo è.

A tal fine bisogna necessariamente studiare il cervello, il sistema nervoso e tutte le problematiche strutturali e funzionali che essi presentano.

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