Tre miliardi e mezzo di anni fa sulla terra cominciò la vita poiché, per la prima volta, vi era un contesto adatto ed un’informazione capace di generarne lo sviluppo.
Da quel momento ogni organismo poteva sopravvivere, a patto di potersi adattare al contesto grazie all’informazione endogena (quella necessaria per generare la vita).
Nel corso del tempo gli organismi divenivano sempre più complessi e, per questo, bisognevoli di maggiori risorse.
Mutazioni dell’informazione endogena generarono la comparsa di cellule capaci di trasdurre forme di stimolazioni (chimiche, vibrazioni, luminose, ecc.) in energia nervosa che veniva utilizzata dagli organismi per migliorare l’adattamento al contesto attraverso l’azione o comportamento, oltre che per la regolazione dell’omeostasi.
In altri termini, la comparsa di queste nuove cellule, definite cellule nervose o neuroni, garantiva agli organismi di astrarre maggiori informazioni dal contesto (a prescindere dalla consapevolezza) per modulare le proprie azioni (sensori-motorio), interne ed esterne.
Con lo sviluppo ulteriore degli organismi, sempre per mezzo delle “mutazioni dell’informazione endogena” o DNA, risultò loro vantaggioso raggruppare in un’unica sede, centralizzata, tutte le cellule nervose che non hanno mai smesso di svolgere sempre la “stessa funzione” (consentire all’organismo di astrarre informazioni dalle stimolazioni ricevute, a prescindere dal livello di consapevolezza da parte dell’organismo che rappresenta, anch’essa, il risultato dell’astrazione ovvero della “percezione”).
Le informazioni “sensoriali”, a prescindere dal livello di complessità degli organismi, sono sempre pervenute da due fonti: dalle cellule che costituiscono l’organismo (per questo, in base alla complessità dell’organismo, possono esistere una moltitudine di “asse organo-cervello”), dal mondo circostante (qualora l’organismo fosse dotato della proprietà biologica di trasdurle in attività nervosa).
Nell’ultimo articolo del blog “autismo fuori dagli schemi” abbiamo potuto riflettere sull’importanza, in alcuni organismi (nello specifico Homo Sapiens), che rivestono sui comportamenti le informazioni provenienti dalla “pelle interna” (una parte della nostra immensa fonte propriocettiva).
In questo articolo, il blog “autismo fuori dagli schemi” intende presentare alle lettrici ed ai lettori una riflessione sul ruolo delle informazioni che la pelle trasmette alle cellule nervose (tatto epicritico).
Lo facciamo con l’aiuto di un libro di recente pubblicazione: Storia naturale del tatto, scritto dalla professoressa Laura Crucianelli, UTET 2024.
Cominciamo con il ricordare che, qualsiasi cosa tocchi la nostra pelle produce un segnale che viene trasmesso in modo più o meno diretto al cervello attraverso il midollo spinale e le strutture sottocorticali e che, per le moderne neuroscienze, queste informazioni sensoriali contribuiscono enormemente allo sviluppo della percezione di noi stessi e del mondo extracorporeo ovvero che ci circonda.
In altri termini, grazie anche alle stimolazioni sensoriali che viaggiano dalla pelle al cervello possiamo sviluppare la capacità di riconoscere dove finisce il nostro corpo e dove inizia quello dell’altro e, successivamente, poter apprendere (sviluppo di successive circuiterie neuronali) le norme sociali (educazione, formazione, esperienze relazionali) del gruppo di appartenenza.
C’è un’altra curiosità biologica non secondaria per le nostre conoscenze: il senso del tatto epicritico è il primo dei nostri sensi a svilupparsi (i feti rispondono con dei movimenti attivi quando la mamma si accarezza la pancia prima ancora dello sviluppo di altri sensi).
Si intuisce facilmente che, già da tempo, i ricercatori non potevano non essere attratti dallo sviluppo di questo asse “pelle-cervello”.
Infatti, nel suo libro, la professoressa Crucianelli ci ricorda che negli anni venti del secolo scorso Harry Harlow osservò i comportamenti dei cuccioli di scimmia messi di fronte a due madri surrogate rappresentate da pupazzi di latta: uno fatto di metallo freddo ma che forniva cibo e uno ricoperto di lana morbida e calda. Le scimmie sceglievano di spendere la maggior parte del tempo con la madre surrogata morbida piuttosto che con quella che forniva del cibo. Quelli che sceglievano la madre surrogata di metallo sviluppavano successivamente comportamenti atipici (ridotte abilità esplorative, tendenza all’isolamento).
In quegli stessi anni, come ci ricorda la professoressa nel suo libro, esperimenti simili furono fatti anche sui topi mostrando che, per i cuccioli di topo in fase di sviluppo, i contatti epidermici con la madre ed i fratellini rappresentano le principali fonti di input sensoriali per lo sviluppo delle abilità del topolino.
Infatti, i topi allevati in isolamento manifestavano, una volta adulti, gravi carenze attentive e minori contatti con altri topi.
Quello che è molto interessante è che nel 2001, come ci ricorda la professoressa Crucianelli, sono stati pubblicati i risultati di uno studio (Lovic, Gonzales e Fleming) che dimostra come i deficit attentivi e sociali, manifesti nei topi deprivati di stimolazioni tattili nel corso del loro neuro-sviluppo, possono scomparire mediante stimolazione tattile con un pennello: “i cuccioli esaminati che venivano accarezzati con il pennello per due minuti otto volte al giorno si comportavano come i controlli allevati dalle madri”.
Successivi studi hanno dimostrato che ricevere “carezze” facilita la ri-organizzazione neurologica.
C’è una riflessione da fare e dalla quale, specie per chi opera nel “mondo” dei disordini del neuro-sviluppo, non possiamo sottrarci.
Negli anni 40 del secolo scorso le osservazioni di Harry Harlow, sulle conseguenze della deprivazione di stimoli tattili sulle scimmie neonate, condizionarono non poco le “assurde” ipotesi (Bettelheim, Kanner) sull’ipotetico ruolo dell’anaffettività materna nella genesi dell’autismo evolutivo.
Le neuroscienze, da diversi anni, ci hanno fatto comprendere che i bambini con disturbo dello spettro autistico manifestano una moltitudine di segni clinici conseguenti a disordine dello sviluppo tattile (non preferiscono il tocco leggero sulla pelle, non preferiscono calze, scarpe, guanti, cappelli, provano fastidio nel tocco di alcuni materiali, talvolta anche l’acqua sul viso provoca fastidio, come il taglio delle unghie, ecc.) non secondario a deprivazioni di “carezze materne” ma secondario ad un “disordine di sviluppo delle sincronizzazioni sensoriali in quel cervello” con conseguente ipersensorialità anche del tatto superficiale.
Ebbene, come è possibile che quanto sperimentato nei topolini ovvero un programma di stimolazione tattile, organizzato su prerequisiti biologici di frequenza e durata, non sia ancora “sperimentato” per i bambini con neuro-sviluppo atipico?