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La “socialità” va a braccetto con la “immunità”

Negli ultimi articoli del blog sto cercando di rendere, tutte le conoscenze forniteci dalle moderne neuroscienze sulla neuroplasticità, comprensibili a coloro che mi stanno seguendo in questo “viaggio”. Questo cammino è necessario, sia per ben comprendere come il sistema nervoso si “organizza”, ovvero apprende quelle abilità neurali di cui, nel corso della vita, se ne avvantaggerà il suo possessore, sia per stabilire eventuali programmi neuro-abilitativi e/o educativi. Alcune mie ricerche recenti mi spingono ad occuparmi, momentaneamente, di altro, consapevole che riprenderò, a breve, l’argomento neuroplasticità.

La relazione tra sistema immunitario, ovvero la rete di cellule che lavorano insieme per difendere il nostro corpo, ed il sistema nervoso ci appare sempre più stretta. E’ trascorso poco più di un anno da quando la ricerca ci ha fatto conoscere che, contrariamente a quanto sostenuto in passato, il sistema linfatico comunica con il cervello, grazie alle meningi, che sono state fatte nuove scoperte. Grazie ad uno studio condotto su topi ed altri animali da parte di scienziati della University of Virginia e University of Massachusetts  Medical School su Nature stiamo apprendendo che esiste un legame stretto tra sistema immunitario e comportamento. Secondo i ricercatori, il collegamento tra meccanismi di difesa endogeni ed il comportamento è stato selezionato dall’evoluzione. Infatti, essendo l’uomo un animale sociale, è esposto ad un maggior rischio di malattie infettive nel momento che deve, necessariamente, vivere con gli altri. Il sistema immunitario dialoga con il cervello, nello specifico stimolando un aumento della produzione di alcune molecole immunitarie quando ci mettiamo in contatto con gli altri. La ricerca ha riguardato una specifica molecola immunitaria, l’interferone gamma, una proteina prodotta dai linfociti di tipo B e T al fine di combattere le infezioni. E’ stato dimostrato, nel corso dello studio, che questa citochina ha la capacità di “organizzare” i circuiti cerebrali che favoriscono il contatto e, dunque, partecipano allo sviluppo della relazione sociale. Quando gli autori della ricerca bloccano geneticamente questa proteina nei topi, i loro cervelli “organizzavano” modelli di “neurostato” che sostenevano l’iperattività ed ipersensorialità, con caduta delle interazioni sociali. In termini evolutivi interagire con gli altri significa aumentare il rischio di infettarsi ed il sistema immunitario cerca, costantemente, di proteggerci dalle malattie che potremmo contrarre o diffondere. Nei soggetti con autismo, la chiusura relazionale potrebbe rappresentare un atteggiamento adattivo trovato dalla natura, nel corso dell’evoluzione, per proteggere, in ultima analisi, questi soggetti che, in seguito ad un processo patogeno infettivo/infiammatorio, hanno riportato una disfunzione del sistema immunitario. Questa interpretazione può essere fantasiosa e, dunque, per niente scientifica. Questo non mortifica quella scienza che sostiene l’esistenza di un legame tra disfunzioni immunitarie e problematiche comportamentali anche severe (autismo).

Necessitano studiosi, forse meno fantasiosi, ma di sicuro “curiosi”, uno di questi potrebbe essere il dottor Jonathan Kipnis.

Spero che la sua ricerca possa dare un ulteriore contributo alla conoscenza.

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