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NOI > ME

L’ossessiva ricerca sul “chi siamo” ci ha fatto conoscere che la comparsa dell’essere umano e il suo dominio sugli altri mammiferi rispecchia questo schema generale: gli individui si sono uniti per dare vita ad agentività socialmente condivise ( sistemi di controllo a feedback costituiti socialmente), che potevano perseguire obiettivi che nessuno individuo poteva realizzare da solo.

Immaginiamo, ad esempio, un gruppo di ventidue ragazzi che intendono dar vita a una partita di calcio.

Devono necessariamente dare forma ad una autoregolazione normativa, una forma sociale non presente in Natura, in cui gli individui sono obbligati a controllare le proprie azioni non solo individualmente (devo passare la palla a chi ha maggiore opportunità per il successo di squadra), ma anche normativamente (il criterio normativo dell’agentività condivisa, nel nostro esempio, è che solo il portiere tocca la palla con le mani).

 Si comprende che gli esseri umani, nel corso dei primissimi anni della loro vita, devono gettare le basi per poter apprendere ad essere individui agenti in agentività condivise da normative sociali (NOI).

E’ un’abilità tipicamente umana.

Basti pensare che finanche i primati più vicini all’uomo, quali i bonobo e gli scimpanzè, si spostano insieme fino a quando non trovano un albero pieno di frutta, e a quel punto ognuno pensa a sé.

E’ un argomento molto interessante, anche per coloro che hanno scelto di prendersi cura di bambini con disturbo dello spettro autistico poiché, è noto a tutti, questi bambini manifestano difficoltà nell’apprendimento di questa abilità tipicamente umana (socializzazione).

L’errore più banale che spesso si commette è quello di considerare questa difficoltà “relazionale” del bambino autistico di natura educativa, per cui ci si affida all’educatore per la “terapia”.

La psicologia dello sviluppo, da qualche tempo, ci invita a trattare l’argomento da una diversa prospettiva: come sviluppiamo l’abilità di generare NOI?

Restando all’esempio del gioco del calcio, in una situazione tipica una ventina di cuccioli d’uomo, prima del terzo anno di età, si spostano fino a quando non trovano un prato ed una palla. A quel punto ognuno corre dietro al pallone pensando per sé e non alla squadra. Al massimo potremmo dire che ciascun bambino sta usando gli altri nel gioco come “strumenti sociali” per i propri fini.

 Sappiamo bene che le scimmie, anche adulte, fanno la stessa cosa.

Gli umani si sono separati dalle grandi scimmie circa sei milioni di anni fa e poi, poco meno di un milione di anni fa, iniziarono a “comportarsi” collettivamente.

Di sicuro, non per giocare a calcio ma per foraggiare, gli umani cominciarono a collaborare più attivamente nella caccia a selvaggina di grandi dimensioni e nel procacciarsi alcuni cibi vegetali. Infatti, intuirono che, se riuscivano in qualche modo a coordinare i propri sforzi, potevano attendersi di ricavare maggiori vantaggi dalla collaborazione

Appare ovvio che, quando i primi umani cominciarono a ricavare vantaggi (più cibo) da questa collaborazione, essa divenne obbligata facendo diventare gli individui dipendenti gli uni dagli altri.

 Ovviamente, questa interdipendenza fece nascere la necessità di scegliere il partner o collaboratore (chi non era abile nella collaborazione non veniva scelto come partner).

 Esattamente, come fanno i nostri ragazzi quando devono formare le squadre per competere nel gioco del calcio.

Ma cosa deve accadere, in termini di sviluppo ontogenetico, per arrivare a far parte di una squadra di calcio e competere in una partita contro un’altra squadra, visto che non nasciamo calciatori?

Devono succedersi almeno tre fasi.

Come prima cosa, i cuccioli d’uomo devono saper formare tra loro un obiettivo congiunto, sostituendo i propri obiettivi individuali.

Intorno al primo anno di vita, il cucciolo d’uomo inizia a prendere decisioni congiunte. Alla vista di una palla, la indica con eccitazione. Poco dopo implora l’altro, con gesti o verbalmente, di seguirlo per giocare. Entrambi guardano la palla e si guardano a vicenda in modo da sincerarsi che entrambi sanno che c’è una palla. Tali atti comunicativi generano il “terreno comune”. Entrambi sanno insieme di voler giocare con la palla, hanno formato un’agentività congiunta per perseguire un obiettivo congiunto. Da quel momento, ognuno dei due presta congiuntamente attenzione a situazioni rilevanti, che siano ostacoli o opportunità. Nessuno resta meravigliato nel leggere che i nostri cuccioli, sin dal primo anno di vita, partecipano all’attenzione congiunta con l’adulto. C’è lo mostrano costantemente con il loro sguardo coordinato con un partner su una situazione esterna e con i loro tentativi attivi di condividere l’attenzione, indicando, con la mano prima e l’indice dopo, o con rudimentali atti comunicativi vocali. Ovviamente, l’assicurazione di ciascun partner all’altro che svolgerà il proprio ruolo con uno spirito cooperativo rappresenta una spinta motivazionale importante per formare l’obiettivo congiunto. In tal modo, il cucciolo d’uomo comincia ad esperire che è disposto a subordinare i propri interessi personali a quelli dell’agentività congiunta, immaginando che anche l’altro farà la stessa cosa.

 E’ un passaggio molto importante, ci fà capire il motivo per cui, subito dopo aver fatto gol, subito dopo il premio, quel cucciolo diventato bambino,  non prenderà la palla e scapperà via ma continua a giocare.

Chi legge attentamente queste righe intuisce che, nel cervello di quel bambino, dopo una buona organizzazione dei circuiti sensori-motori che controllano l’oculomotricità, la mano, l’apparato foniatrico (sguardo, indicare, mimica, vocalizzi, propriocezione in generale) inizia una successiva fase organizzativa basata su un sistema di controllo a feedback (controllo delle azioni da parte di un sistema costruito socialmente).

Come seconda cosa i cuccioli d’uomo, cresciuti (24-48 mesi), devono imparare a coordinare i propri ruoli individuali nell’attività collaborativa, e ciò richiede nuove forme di assunzione di prospettiva e di comunicazione cooperativa. Quando l’organizzazione neurologica, nei primi 24 mesi di vita, ha garantito al cucciolo d’uomo di sviluppare obiettivi congiunti e attenzione congiunta, i nostri bambini cominciano a creare un tipo di mondo condiviso in cui operare. Appare ovvio che, per collaborare efficacemente (competere in una partita di calcio), ogni bambino deve riconoscere, al contempo, gli obiettivi e la prospettiva del compagno di squadra, nel suo ruolo individuale.

 In altri termini, iniziamo a diventare umani quando, in una relazione, entrambi i partner comprendono il ruolo e la prospettiva l’uno dell’altro e, come se fosse poco, entrambi i partner facilitano il ruolo e la prospettiva l’uno dell’altro con atti di comunicazione cooperativa.

 Si intuisce facilmente che un buon sviluppo di questa fase richiede, necessariamente, un pregresso sviluppo sensori-motorio capace di garantire, al cucciolo d’uomo, una comunicazione gestuale, mimica, indicativa e, infine, verbale, per poter comunicare di aver assunto la prospettiva dell’altro: Io vedo che Tu non presti attenzione all’avversario che è sempre libero.

Voglio ricordare che, benché i gesti naturali non siano potenti come il linguaggio, i primi umani usavano indicare e mimare per pianificare collaborativamente e prendere decisioni verso un obiettivo congiunto. Per questo, in termini di neurosviluppo, è importantissimo la valutazione clinica dei gesti, tra i 12 ed i 18 mesi di vita, del cucciolo d’uomo.

Come terza ed ultima cosa, i nostri ragazzi, per poter giocare a calcio come gli adulti devono poter avere tutto sotto controllo per la collaborazione, persino al cospetto di esigenze inaspettate (l’arbitro mi espelle), lavorando di gruppo per avere il controllo cognitivo della collaborazione.

Chi ha esperienza con bambini che hanno superato il terzo anno di età conosce bene che, questi bambini, quando hanno preso un impegno a collaborare (giocare con la palla), e il loro partner non svolge il proprio ruolo nel modo ideale, protestano con lui (cosa che non fanno se il loro partner è all’oscuro di come ci si comporta in quel ruolo).

 Si comprende facilmente che questa fase richiede meccanismi di autoregolazione (inibizione) sociale (quello che si deve fare, o che si dovrebbe fare, o si farebbe, o si è tenuti a fare).

Prendersi cura dei bambini con disturbo dello spettro autistico richiede chiarezza su quale di queste tre “fasi” del nostro sviluppo è iniziato il “disordine”.

Solo dopo questa “diagnosi” si possono prescrivere strategie terapeutiche individuali con l’obiettivo di gettare le basi per la socialità.

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